La nostra unità pastorale è composta da due chiese parrocchiali:
Chiesa parrocchiale di San Giorgio Martire
Clicca su una delle seguenti voci per raggiungere la sezione desiderata:
Chiesa parrocchiale di S. Antonio di Padova
Clicca su una delle seguenti voci per raggiungere la sezione desiderata:
Chiesa parrocchiale di san Giorgio Martire in Rio Saliceto
L’antica chiesa
1070 Nel territorio o feudo “centum iuges” viene citato per la prima volta un tempio dedicato a S. Giorgio, che dal 1092 è citato come parrocchia
1302 La chiesa di Rio è talmente povera che viene dispensata dal pagare le decime.
1452 viene allungata la chiesa
1554 don Antonio Cigaglia, parroco di Rio, ottiene la facoltà di vendere una fetta del beneficio parrocchiale per costruire la casa del mezzadro (che resterà in piedi fino a metà ‘900)
1588 il Rettore della chiesa di S. Giorgio in Rio (antico nome di Rio Saliceto), Antonio Cigali, portò in solenne processione dalla Basilica Collegiata di S. Quirino in Correggio fino alla chiesa di Rio la reliquia di S. Giorgio, che ancora oggi si conserva.
1630 dal 15 agosto fino al 22 aprile 1631 la peste si abbatte su Rio. Si contarono 1467 morti e solo 120 sopravvissuti.
1663 visita pastorale del Vescovo Marliani di Reggio e realizzazione del primo inventario e pianta della chiesa
1682 Si dà inizio alla costruzione di una nuova chiesa, i cui lavori terminano nel 1687
1760 Il parroco don Brunetti fa costruire la canonica
1780 Il parroco don Piovani fa ricostruire il coro
1785 trovandosi la chiesa in uno stato di degrado, vengono fatti importanti interventi di restauro che toccano il tetto e le pareti laterali
(notizie tratte da “Millenaria storia della parrocchia di S. Giorgio” di T. Tagliavini, 2021)
La nuova chiesa del 1879
A metà ‘800 crebbe il desiderio di costruire una chiesa più grande, che sostituisse la modesta chiesa del 1687 la quale non era in grado di contenere la sempre più crescente popolazione. Già nel 1853 quando era parroco don G. Battista Branchetti, i possidenti di Rio si erano autotassati per la costruzione di una nuova torre campanaria, ma non vi erano ancora i soldi necessari per costruire una nuova chiesa.
Nel 1861, appena un anno dopo la creazione del Comune, il Consiglio Comunale di Rio Saliceto, quale primo atto per la realizzazione della nuova chiesa, incaricò ufficialmente l’ingegnere correggese Francesco Forti di stendere il relativo progetto, con l’intesa che la vecchia chiesa venisse utilizzata come sede degli uffici comunali e delle aule scolastiche di cui il Comune era totalmente sprovvisto (il Municipio venne costruito solo nel 1889 e dal 1860 la sede comunale provvisoria era la vecchia canonica del 1760). Quello che il Forti realizzò era un progetto decisamente maestoso ed ambizioso, ma troppo oneroso per le modeste finanze del neonato Comune. Così, nel 1868, il Consiglio Comunale affidò il compito di stendere un progetto meno costoso all’ingegnere Raffaele Villa di Correggio. Tale progetto prevedeva la costruzione ex novo di una chiesa sulle fondamenta della precedente, abbandonando l’idea di ampliare l’edificio del 1687.
Il primo progetto del Villa (vedi disegno a) prevedeva la realizzazione di una nuova chiesa di fronte a quella che nel 1877 era la casa comunale (infatti dal 1877 la sede del comune era stata spostata dalla vecchia canonica a un edificio che sorgeva sull’attuale via Martiri all’altezza di piazza Carducci, ciò durerà fino alla costruzione dell’attuale municipio nel 1889). Tale progetto, mai eseguito, prevedeva l’abbattimento della vecchia chiesa per poter raddrizzare la strada principale e la costruzione della nuova chiesa in un luogo diverso, che oggi corrisponderebbe circa a piazza Carducci.
Nel 1871 però, forse per le ristrettezze economiche del comune e i dubbi dei consiglieri sull’edificare una nuova chiesa, Villa elabora un secondo progetto (vedi disegno β). In esso, come in realtà avverrà, viene previsto l’ampliamento e la modifica della vecchia chiesa con la realizzazione di un campanile a nord ovest, con un locale provvisorio per custodire le campane già acquistate nel 1853 (2 nel disegno).
Alla fine si seguirà questo secondo progetto, ma a lavori ultimati (vedi disegno C) in realtà la nuova chiesa risulta più larga rispetto al progetto del Villa (quindi con un sensibile aumento di volume rispetto alla chiesa antica) e con il campanile adiacente alla chiesa posizionato a nord est.
Finalmente, il 23 aprile 1879, la nuova Chiesa parrocchiale e la torre furono consacrate dal Vescovo e Principe di Reggio Mons. Guido Conte Rocca. Proprio in quell’occasione, il priore don Branchetti fu insignito del titolo di prevosto, che ancora oggi appartiene di diritto al parroco di Rio Saliceto.
La planimetria della chiesa è di tipo longitudinale con una navata centrale affiancata da strette navate laterali. L’ultima campata prima del presbiterio ha cappelle rialzate di un gradino. Il presbiterio termina con un’abside semicircolare.
Dimensioni interne della chiesa: larghezza 14,55 cm, lunghezza 24,50 cm. Navata: larghezza 8,77 cm, lunghezza 21,95 mt.
La chiesa è stata danneggiata dal sisma del 1987 e, in seguito, da quello del 1996. Dopo quest’ultimo sono stati approntanti i primi interventi antisismici, con il rafforzamento del tetto della chiesa e della cella campanaria e la riparazione delle lezioni interne sulle volte interne.
A ciò è poi seguito il restauro pittorico degli interni nel 2000 ad opera del prevosto don Romano Vescovi.
Purtroppo poi il sisma del 2012 ha gravemente danneggiato la chiesa, in particolare le volte della navata centrale e quelle laterali. Ciò ha reso necessaria la chiusura della chiesa (fino al 2014) e importanti interventi di consolidamento e restauro pittorico.
VARIAZIONI DELL’AREA DELLA CHIESA dal 1871 al 2000
- (sopra) antica chiesa parrocchiale eretta nel 1687
- (sopra) Locale provvisorio per le campane eretto durante la costruzione della chiesa
- (sopra) Vecchia canonica costruita nel 1760
- Chiesa nuova del 1879
- Casa del mezzadro demolita negli anni ’70 del ‘900
- Residuo della vecchia canonica o nuovo edificio
- Canonica eretta nel 1889 dal don Beneventi
- Teatrino eretto nel 1921 e demolito nel 1989
- Nuova canonica costruita da don Guido nel 1975
- Asilo parrocchiale “W, Biagini” edificato da don Romano nel 1990
Qui puoi vedere il disegno completo di Tienno Tagliavini “Millenaria storia della chiesa di San Giorgio in Rio”
L’esterno
Lo stile della nuova chiesa, sia all’interno che all’esterno, è improntato ad un forte neoclassicismo. In tutti gli spazi, sia esterni che interni, si nota l’accentuata simmetria sul modulo compositivo del quadrato voluta dal progettista.
La facciata, in stile dorico, presenta due piani di lesene divise da una fascia e sormontate da un frontone a tetto. Le tinte predominanti sono il giallo e il rosso. Su questo frontone era dipinta una grande ostia, circondata da raggi, recante la sigla IHS ovvero Iesus Hominum Salvator, Gesù Salvatore degli Uomini. È la rappresentazione simbolica del sacramento dell’Eucaristia, che si celebra quotidianamente all’interno della chiesa. L’ostia consacrata è il Corpo di Cristo, unico salvatore del genere umano. Questo simbolo, oggi scomparso, era però stato aggiunto, con tutta probabilità, solamente negli anni ’30 del XX secolo ed è andato perduto nel corso degli anni ’70 con il rifacimento dell’intonaco della facciata. In origine, infatti, l’esterno della chiesa si presentava privo di ogni decorazione, con le medesime tinte ripristinate dai restauri del 1991 sotto il prevosto don Romano Vescovi.
La pavimentazione del sagrato antistante la chiesa fu realizzata, come riportato dalla lapide, solo nel 1961. Nell’aprile 1903 vi erano state collocate, nell’occasione del XVI centenario del patrono S. Giorgio, due colonnette in marmo, tuttora visibili, riportanti due iscrizioni ricordanti l’avvenimento. La prima dice: «Il XXIII aprile MCMIII / Rio Saliceto / onorava di plauso e preci / il Patrono / San. Giorgio M. / ricorrendo / il suo XVI centenario», la seconda: «In ricordo / delle feste geniali / per quanti / ad esse concorsero / in questi cippi / il Parroco e il Comitato / fermavano».
Sul lato sinistro del sagrato è una grande croce in ferro, alta circa tre metri, realizzata nel 1953 nell’occasione del 25° anniversario dell’ingresso in parrocchia di don Marino Roccatagliati. Al fianco di questa croce è una statua della Madonna del Rosario, acquistata dal prevosto don Romano Vescovi nel 1990.
Il campanile
L’imponente torre campanaria, che misura trentadue metri ed è situata sul lato sinistro della chiesa, ripropone lo stile neoclassico e le tinte della facciata. Essa è conclusa da una cuspide di volte “a lancetta” impostate su di un tamburo a base ottagonale non regolare. Sulla cima svetta l’enorme sfera sovrastata dalla croce, che, con tutta probabilità, contiene reliquie e documenti del periodo in cui venne innalzata. La cella campanaria, contraddistinta da quattro enormi bifore di gusto neorinascimentale, contiene attualmente cinque campane. In origine però le campane erano quattro, realizzate a metà ‘800 da Luigi Bimbi, discendente di una stirpe di fonditori della Garfagnana. Egli, dopo aver fuso le quattro campane di Rio Saliceto, realizzò anche quelle della vicina chiesa di Mandriolo. Delle quattro campane originarie, però, soltanto una, quella principale, è giunta fino a noi. Infatti, durante la seconda guerra mondiale, le tre campane minori vennero requisite e fuse dal regime fascista per sostenere le spese belliche. A guerra finita, nel 1948, vennero realizzate altre quattro campane dalla ditta Capanni di Castelnuovo Monti (quindi una in più rispetto al 1879) che ancora oggi accompagnano le principali celebrazioni liturgiche.
Passiamo ora ad un’analisi dettagliata delle singole campane partendo dalla più grande. Ricordiamo che è tradizione scolpire sulle campane frasi tratte da testi sacri e immagini di santi cui le campane stesse sono dedicate. In una società rurale sprovvista dei rapidi mezzi di comunicazione odierni, le campane avevano non solo la funzione religiosa di invitare i fedeli alle celebrazioni, ma anche quella civile di segnare le ore e le condizioni meteorologiche. A causa di questa importanza le squille, al momento della loro inaugurazione, venivano consacrate con il Sacro Crisma.
Come si è detto, la campana principale è l’unica sopravvissuta delle quattro realizzate da Luigi Bimbi nell’800. Nella parte inferiore compaiono quattro figure: una donna che regge un calice (simbolo della fede), una croce, S. Giovanni Battista, protettore del parroco dell’epoca Giovanni Battista Branchetti, e una Madonna col Bambino.
La parte superiore, decorata da frutti e festoni floreali, riporta l’iscrizione: «Aere conlato a possidentibus in hac paroecia Aloisius Bimbius fudit anno MDCCCLIII» ovvero «Luigi Bimbi fuse il bronzo pagato dai possidenti in questa parrocchia nell’anno 1853». Quello che sorprende è la data 1853, che precede di 26 anni l’inaugurazione della chiesa stessa. In realtà già prima della costruzione della nuova chiesa si era affrontato il problema della edificazione di una nuova torre e della fusione delle campane. Per sovvenire a queste spese, come di dice l’iscrizione, i possidenti di Rio si imposero una sopratassa di 7/1000 per ogni lira di imponibile. Questa generosa iniziativa permise di raccogliere la somma necessaria (circa 21110£) per la fusione di quattro campane.
La seconda campana ha in cima l’iscrizione: «Ablatum tempore belli A. D. MCMXL-MCMXLIV resitutum publico sumptu A. D. MCMXLVIII» che significa «(campana) rimossa al tempo della guerra 1940-1944 e ricostruita a spese dello stato nel 1948». È quindi chiaro che questa campana è una delle quattro rifuse dalla ditta Capanni di Castelnuovo Monti, di cui è impresso il marchio, nel 1948 dopo la requisizione bellica. Al di sotto di quest’iscrizione compaiono le parole tratte dal Salmo 135: «Laudate Deum quoniam bonus Dominus. Psallite nomini eius quoniam suave» ovvero «Lodate il Signore: il Signore è buono; cantate inni al suo nome, perché è amabile». Sulla parte opposta a queste iscrizioni è rappresentata la scena della crocifissione.
Anche la terza campana, in ordine di grandezza, è stata realizzata dalla ditta Capanni nel 1948 e anch’essa riporta, nella parte superiore, la medesima iscrizione della precedente poiché l’originale era stata rimossa durante la seconda guerra mondiale. Il testo sacro è però diverso, infatti sono riportate le prime parole del cantico mariano del Magnificat (Lc 1, 46-55), «Magnificat anima mea Dominum», cioè «L’anima mia magnifica il Signore». Troviamo anche l’immagine della Madonna col Bambino, e non è un caso, poiché le parole del Magnificat furono pronunciate proprio da Maria.
La quarta campana invece non sostituisce l’originale andata perduta durante l’ultima guerra, ma fu realizzata ex novo nel 1948 dalla fonderia Capanni. Si tratta della campana aggiunta alle quattro previste in origine. Essa riporta l’iscrizione tratta dai Salmi 147 e 95 «Praecinite Domino in confessione et in psalmis iubilemus ei» che significa «Cantate al Signore un canto di grazie, a lui acclamiamo con canti di gioia». Nella parte inferiore compaiono le figure dei santi Pietro e Paolo, la crocifissione e sant’Antonio Abate, protettore del mondo agricolo e quindi molto sentito in un paese rurale come Rio Saliceto.
L’ultima campana riporta ancora l’iscrizione presente nella seconda e nella terza poiché sostituisce l’originale rimossa durante la seconda guerra mondiale. Il testo sacro che vi è impresso è tratto dal Salmo 147 «Emittet verbum suum et liquefaciet ea, flavit spiritus eius et fluent aquae» che, tradotto, significa «Manda una sua parola ed ecco si scioglie, fa soffiare il vento e scorrono le acque». Al di sotto di questa frase è inoltre scritto «Theresina Brunetti plene obtulit» ovvero «Teresina Brunetti offrì completamente». È questa l’unica campana offerta da un privato cittadino e non pagata dallo stato. Nella fascia inferiore sono anche rappresentati la Madonna del rosario, il Sacratissimo Cuore di Gesù e san Giuseppe. Neanche queste immagini sono poste a caso poiché la stessa Teresina Brunetti, grande benefattrice, aveva offerto nel 1945 proprio le statue lignee della Madonna del Rosario, del Sacratissimo Cuore di Gesù e di san Giuseppe tuttora conservate all’interno della chiesa.
Nel campanile venne anche installato, nel 1909, un orologio meccanico a un quadrante col suono delle ore, funzionante grazie a un sistema di contrappesi. Esso è opera dell’artigiano reggiano Fulvio Ferraboschi e costò 350 £. La richiesta di poterlo installare nel campanile era venuta direttamente dal Consiglio Comunale di Rio Saliceto, nella seduta del 13 febbraio 1909, e venne accolta a pieni voti dal Consiglio di Fabbriceria Parrocchiale, presieduta dal prevosto Antonio Tondelli, affidando la manutenzione del nuovo orologio al campanaro.
Era infatti assolutamente necessario un orologio pubblico i cui rintocchi si potessero udire in tutto il paese, poiché, all’epoca, ben pochi riesi possedevano orologio. Il campanile della chiesa consentiva una maggiore visibilità del quadrante e una maggiore portata del suono dell’orologio. Questo funzionò fino al 1991 quando, a causa del progressivo decadimento, venne sostituito da un moderno orologio elettrico. L’orologio originale è stato smontato ed è possibile ammirarlo all’interno della canonica.
Nel 1991 il prevosto don Romano Vescovi, grazie a una generosa offerta, ha provveduto al tinteggio esterno di tutta la torre, che all’epoca aveva perso ogni tinta, ripristinando le originali cromie ottocentesche.
Nel marzo 2021 il prevosto don Manfredini ha provveduto all’installazione della nuova illuminazione interna della cella campanaria.
Gli interni
L’interno è a tre navate divise da sei pilastri quadrati. Esso in origine, come hanno dimostrato i saggi stratigrafici compiuti per il restauro del 2000, si presentava privo di decorazioni con cromie ben diverse da quelle attuali: tinte a pastello di azzurro e rosa con elementi decorativi a lunette sui pilastri in toni gialli e azzurro intensi (in questo video si vedono diversi dettagli).
La navata principale presenta un soffitto con volte a crociera, mentre quelle laterali hanno volte a botte. L’attuale pavimentazione, realizzata nel 1960 (questa data è visibile sul gradino del portale centrale), è in quadrotte di graniglia rosa, con al centro una corsia di colore nero del medesimo materiale. Queste mattonelle riprendono le cromie dell’ancona del quadro di S. Giorgio presente nell’abside. L’originale pavimento, che ben si addiceva alla semplicità della chiesa era in cotto ed è ancora visibile nella sagrestia e nel coro. Il pavimento del presbiterio era già stato rifatto nel 1941.
La Chiesa é illuminata dall’esterno attraverso otto finestre circolari sulla parte alta delle pareti in corrispondenza delle volte laterali. Ad ovest da una finestra a rosone. Fino al secondo dopoguerra queste finestre potevano essere coperte da tende e infissi, di cui sono ancora visibili le carrucole, che permettevano di mantenere l’interno in uno stato di penombra, con lo scopo di far risaltare la luce delle candele.
Le decorazioni interne, che oggi possiamo ammirare grazie ai restauri del 2000 e del 2014, sono state realizzate nel 1945/46. Il prevosto don Marino Roccatagliati, al termine della guerra, decise di decorare l’interno della chiesa, che ancora si presentava nelle tinte ottocentesche alquanto freddo e spoglio. Questo compito venne affidato al carpigiano Nello Mazelli (1898-1978), che aveva già operato nella chiesa di Quartirolo di Carpi e in quella di S. Martino Spino vicino a Mirandola dove nel 1940 aveva realizzato un affresco nel catino absidale raffigurante San Martino che dona al povero il mantello; successivamente decorò anche la cappella del cimitero di Carpi. Il Mazelli fu affiancato dal riese Roberto Montanari (1912-1993), detto Gennari, che successivamente dipinse anche i soffitti di alcune stanze dell’attigua canonica. Come è possibile notare nella lapide situata sulla sinistra in fondo alla chiesa, anche numerosi parrocchiani contribuirono economicamente alla realizzazione di quest’opera. I restauri del 2000, seguiti dall’architetto Fausto Bisi, hanno fondamentalmente mantenuto e valorizzato i decori del 1945, alleggerendoli in alcuni punti (come il presbiterio e gli altari laterali).
Sui muri perimetrali, come da consuetudine, sono collocate le 14 stazioni della via Crucis, opera lignea degli anni ’40 del XX secolo dello scultore Giacomo Vincenzo Mussner di Ortisei.
l’interno della chiesa oggi
l’interno della chiesa addobbato a festa per l’ingresso di don Roccatagliati l’8/12/1928
Questa navata è costituita da tre grandi volte a crociera, che contengono decorazioni ad archetti nei costoloni e un grande stemma al centro. I sei pilastri sono ornati da lunette e al centro di ciascuno vi è un tondo con all’interno una croce. In tutto le croci sono 12. Questo numero è simbolico, infatti come i 12 apostoli sono le fondamenta della chiesa universale, così anche le 12 croci sono poste nei pilastri che sostengono l’edificio. Tutte queste croci sono state unte col Sacro Crisma dal Vescovo Rocca il giorno della consacrazione della chiesa stessa.
Nella prima vela, partendo dal fondo della chiesa, compare uno scudo esagonale a fondo rosso con l’immagine di un cavallo e una stella bicolore a sei punte. Al di sopra appare un elmo cavalleresco con a fianco una spada. Lo scudo è sorretto ai lati da due angeli. Si tratta dello lo stemma del Vescovo di quel periodo Eduardo Brettoni (1864-1945, Vescovo e Principe di Reggio dal 1910 fino alla morte).
Al centro della seconda vela vi è uno scudo con sopra un elmo da cavaliere con pennacchio e una palma posta trasversalmente. Sopra appaiono, a destra, una spada e a sinistra una lancia. Sono i simboli del patrono S. Giorgio: che era cavaliere (scudo, elmo e spada), trafisse il leggendario drago (lancia ) e venne martirizzato (palma). Al di sotto vi è l’iscrizione latina: «Fides omnia vincit» che significa: «la fede vince ogni cosa». La vita è una battaglia e la fede è l’arma vincente; i martiri ne sono testimoni.
Nella terza vela è rappresentato lo stemma, sorretto da due angeli, del Servo di Dio Papa Pio XII (1939-1958), allora regnante. Al centro, sopra tre monti stilizzati che identificano il Calvario, vi è la colomba recante un ramoscello d’ulivo simbolo della pace fra Dio e gli uomini. Noè infatti al termine del diluvio universale per verificare che le acque si fossero ritirare inviò una colomba, la quale ritornò con una ramo d’ulivo. Nella parte inferiore troviamo anche le acque del diluvio e un piccolo lembo di terra emersa, che rappresenta la fine del castigo divino. Al di sotto dello stemma vi è il motto di Pio XII: “Opus iustitiae pax” che significa “la pace é opera della giustizia”.
Sulla sinistra, addossato all’ultimo pilastro é situato il bellissimo Pulpito in legno realizzato dal prevosto don Beneventi. La balaustra che lo circonda, divisa da paraste, reca nel centro l’immagine di S. Giorgio che uccide il drago sovrastata dalla palma del martirio. Al di sopra della balaustra è incisa la sigla D B P F 1888 che sta per Dominicus Beneventi Praeposito Fecit 1888 ovvero Domenico Beneventi Prevosto Fece nell’anno 1888. Il pulpito un tempo veniva utilizzato durante la S. Messa dal sacerdote per tenere l’omelia nelle principali festività. Infatti, mancando i moderni impianti di amplificazione, questo era l’unico sistema per fare udire ai fedeli chiaramente la propria voce. Nel secondo dopoguerra esso cadde progressivamente in disuso tanto che la scala andò distrutta. Dal 2005 è stato riportato all’uso liturgico come ambone nell’occasione delle principali solennità, con la realizzazione di una nuova scala in legno.
Il presbiterio e l’abside
Il presbiterio e l’abside costituiscono la parte terminale dell’edificio. Il termine presbiterio, di origine greca, significa letteralmente “spazio riservato agli anziani” ovvero ai sacerdoti. Tale area comprende lo spazio antistante l’altar maggiore, che è sopraelevato rispetto al resto della chiesa, per separare simbolicamente l’area riservata ai fedeli (mondo terrestre) da quella in cui si compie quotidianamente il sacrificio della messa (mondo celeste). Il presbiterio è aperto da un grande arco sopra al quale è riportata una citazione tratta dal Salmo 84: «Quam dilecta tabernacula tua Domine virtutum» che significa «Quanto sono amabili le tue dimore Signore degli eserciti».
Le paraste (cioè le semicolonne) del presbiterio sono ornate da grappoli d’uva e spighe di grano, simboli rispettivamente del pane e del vino che vengono consacrati sull’altare.
Ai lati del presbiterio sono due nicchie realizzate negli anni ’50 da don Marino: a sinistra quella contente il busto reliquiario di san Giorgio; a destra quella con l’immagine della Divina Infanzia di Gesù. Il busto di san Giorgio (opera lignea cinquecentesca rivestita d’argento) anticamente era collocato in fondo alla chiesa, sulla sinistra, nel vecchio armadio delle reliquie opposto al fonte battesimale. Tale immagine viene ancora oggi portata solennemente in processione ogni 23 aprile, festa di san Giorgio, assieme alla reliquia del santo, che viene posta per l’occasione al suo interno. La statua della divina Infanzia è opera lignea dello scultore Mussner di Ortisei (anni ’50 del XX secolo) e rappresenta Gesù Bambino in età di 2/3 anni. Essa viene esposta per la solennità dell’Epifania; anticamente in tale giorno aveva luogo anche una processione con tale statua. Nella Pasqua 2021 tali nicchie sono state illuminate
Nelle quattro vele della volta sovrastante il presbiterio sono dipinti i simboli dei quattro evangelisti. Partendo da est e ruotando in senso orario sono: l’angelo (S. Matteo), il leone (S. Marco), Il bue (S. Luca), l’aquila (S. Giovanni). Ognuno di questi regge il libro aperto del proprio vangelo sul quale sono scritte le prime parole dello stesso. Non è una caso che i simboli dei quattro evangelisti siano dipinti proprio sulla volta che sovrasta l’altar maggiore; infatti è qui che riaccade per noi nella Messa il sacrificio di Cristo sulla croce raccontato nei vangeli.
Sui fianchi del presbiterio sono due ampie tribune contraddistinte da sei grandi grate in legno. All’interno di esse era usanza, soprattutto per gli anziani, fino agli anni ’70, ascoltare la S. Messa in una posizione alquanto privilegiata. Ora questi spazi sono adibiti a ripostiglio. Al di sopra delle tribune, sovrastanti il presbiterio, sono collocate le due cantorie, restaurate nel 2014. Si tratta di due grandi balconate che venivano utilizzate, fino al secondo dopoguerra, per l’accompagnamento musicale alla S. Messa. La cantoria di sinistra era riservata all’organo a canne, acquistato dal parroco don Antonio Tondelli negli anni ’20 dalla ditta Battani (organari modenesi operanti tra XIX e XX sec) e purtroppo andato irrimediabilmente distrutto negli anni ’70. La cantoria di destra serviva invece per il coro. Questa posizione sopraelevata permetteva infatti una migliore qualità del suono delle voci, che giungeva dall’alto in direzione dell’altare maggiore
Nel catino absidale è dipinto il Redentore che con la mano destra è in posizione benedicente, mentre con la sinistra regge un libro su cui è scritto: «Ego sum Via Veritas et Vita» cioè: «Io sono la Via, la Verità e la Vita» (Gv 14, 6). La figura si eleva sopra ad una roccia dalla quale sgorgano sette ruscelli che formano uno specchio d’acqua. Ai margini di questo due cervi si abbeverano. Intorno vi sono alcuni cipressi, mentre sul fondo si intravedono delle montagne.
Questa raffigurazione del Redentore è opera del carpigiano Nello Mazelli, del quale si vede la firma nell’angolo in basso a destra: «N. Mazelli 1945». Tale opera è ricchissima di significati allegorici. In primo luogo i sette ruscelli che sgorgano dal Cristo rappresentano i sette sacramenti; questi infatti sono amministrati dal sacerdote il quale, però, opera in persona Christi. I ruscelli formano uno specchio d’acqua, cioè la vita della chiesa fondata sui sacramenti, al quale si abbeverano due cervi, rappresentazione degli uomini che riconosco in Cristo l’unica via, verità e vita e si accostano ai sacramenti. Questo concetto è esplicato dall’iscrizione, posta al di sotto del dipinto, «Qui sequitur me non ambulat in tenebris» ovvero «Chi segue me non cammina nelle tenebre» (Gv 8, 12). Chi segue Cristo attraverso la vita della chiesa non è ingannato, non cammina nelle tenebre, ma, al contrario ottiene in premio la vita eterna, rappresentata dai cipressi, piante sempreverdi, posti sullo sfondo. Inoltre il Cristo non è statico, ma in movimento, per indicare la missione che il Padre gli ha affidato. Siccome la Chiesa è il Corpo di Cristo oggi nella storia, non può essere la Chiesa di Cristo se non vive la sua dimensione missionaria in ogni ambito della vita.
In fondo all’abside, dietro all’altare maggiore, si trova il coro ligneo. Esso segue la forma semicircolare dell’abside ed è datato 1843, poiché era stato realizzato per la vecchia chiesa. Gli autori di quest’opera sono, con tutta probabilità, degli artigiani rolesi; Rolo infatti era, nel XIX secolo, patria di grandi intarsiatori. Il coro è costituito da 13 grandi scanni davanti ai quali sono posti gli inginocchiatoi. Di particolare rilevanza è l’inginocchiatoio centrale che presenta una tarsia raffigurante S. Giorgio a cavallo che uccide il drago. Contrariamente a quanto si possa pensare, il coro non serviva per coloro che cantavano la Messa, i quali stavano nelle cantorie, ma per il clero che assisteva alle funzioni in particolare l’ufficio divino. In queste occasioni i sacerdoti recitavano la propria parte dei salmi stando dietro all’altare maggiore, mentre l’assemblea rispondeva dal posto.
Partendo dal fondo della chiesa, nella prima volta di sinistra, nell’esagono centrale, appaiono due chiese, la prima è più grande, mentre quella di destra è decisamente più piccola, sulla sinistra ce n’era certamente un’altra, cancellata dal terremoto del 1996 e dalle forti infiltrazioni di umidità che, fino a pochi anni fa, impedivano una sicura lettura delle immagini. Purtroppo i restauri del 2000 e del 2014 non sono riusciti a ricostruire interamente questa decorazione. Possiamo comunque affermare che sulla sinistra era rappresentata l’attuale chiesa parrocchiale di Rio, al centro il Duomo di Reggio Emilia e sulla destra la chiesa di Ca’ de’ Frati. Gli autori volevano quindi affermare l’unità delle due chiese di Rio Saliceto (Ca’ de’ Frati non era ancora parrocchia separata) con il Duomo di Reggio ovvero con il Vescovo Diocesano la cui cattedra è in detta chiesa. Quindi l’unità tra il gregge (la parrocchia) e il suo pastore (il Vescovo), inviato nella diocesi dal Papa. Sopra alle tre chiese è riportata l’iscrizione latina: «Domine dilexi decorem domus tuae» che significa: «O Signore, ho amato la bellezza della tua dimora». È un versetto del Salmo 25 che il Sacerdote recitava durante il lavabo (lavanda delle mani che precede l’Eucaristia) nel rito romano precedente la riforma liturgica del 1970. Con questa citazione si vuole affermare che il popolo di Rio Saliceto, e, più in generale, il popolo della diocesi di Reggio, con la costruzione di queste tre chiese ha amato la bellezza della casa di Dio. Si tratta, quindi, della rappresentazione della chiesa locale, mentre, come vedremo, la volta successiva sarà dedicata a quella universale.
Sotto a questa volta è collocato l’antico armadio delle reliquie, in uso fino agli anni ’50 del XX secolo, quando esse, in base alle nuove norme, furono trasferite nello sportello a muro in presbiterio (dove sono tuttora). Tale manufatto è realizzato in scagliola ed è assolutamente speculare al fonte battesimale, che si trova sul lato opposto. Nella parte superiore troviamo un giglio e una palma, simboli, rispettivamente, dei santi vergini e dei santi martiri. Attualmente tale armadio contiene l’immagine del Bambino di Praga. Sulla destra dell’armadio delle reliquie è collocata una piccola nicchia contenente la statua in gesso di Santa Rita da Cascia.
Nella seconda volta, nel rombo centrale, appare un’imbarcazione di legno con iscritto sulla vela Petrus e disegnati un pesce e una croce. La barca in tempesta del pescatore Pietro rappresenta la Chiesa in balia delle difficoltà del mondo, ma guidata saldamente da Pietro, cioè dal Papa suo successore e vicario di Cristo in terra. Sulla vela sono rappresentati due simboli tipici del cristianesimo: il primo è la croce, strumento della passione di Cristo, che identifica tutti i cristiani; il secondo simbolo, meno celebre del primo ma ugualmente importante è il pesce. Questo era il simbolo segreto dei primi cristiani durante le persecuzioni. Infatti le lettere della parola greca iczus (Íχθuς), che significa pesce, diventano le iniziali della frase: «Iesus Cristos Zeu Uios Soter» ovvero «Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore». Se la volta precedente era dedicata alla chiesa locale, questa invece rappresenta metaforicamente la Chiesa universale guidata dal Papa e la sua missione in mezzo alle difficoltà di ogni giorno.
Sotto questa volta è esposta una riproduzione a grandezza naturale della S. Sindone (donata alla parrocchia nel 2000).
Nella terza volta, nel tondo centrale vi sono una stella cometa (simbolo della fede), un’ancora (simbolo della speranza), un cuore ardente (simbolo della carità). Si tratta di una rappresentazione simbolica delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità. Ai due lati del tondo, entro due rombi, uno a sinistra e l’altro a destra, compaiono due mazzi di gigli bianchi avvolti ciascuno in una stola bianca bordata in oro, simbolo del sacerdozio che comporta la castità (i gigli) e i legame indissolubile con Cristo (la stola che il sacerdote indossa in ogni funzione). Su ciascuno dei due rombi è inoltre riportata l’iscrizione latina: «Da mihi animas coetera tolle» (Gn 14,21) che significa: «Da a me le anime, prenditi pure le altre cose». È il motto di san Giovanni Bosco, fondatore dei Salesiani, ma è anche una frase che ben riassume la missione del sacerdote che permette al demonio di prendere tutto, ma non le anime. Questi simboli e il riferimento a don Bosco, grande educatore, ci permettono di affermare che i dipinti di questa volta sono dedicati alla missione del sacerdote e alle virtù teologali che lo guidano.
Nella quarta volta, sovrastante l’altare del Sacratissimo Cuore di Gesù, è dipinto, in un tondo, il cuore ardente di Cristo, bordato di fiammelle. Al di sotto del cornicione vi è l’iscrizione latina, tratta dalla preghiera del Pater noster, «Adveniat regnum tuum», venga il tuo regno. Tale apparato iconografico è, ovviamente, da mettersi in relazione con l’altare sottostante.
Partendo dal fondo della chiesa, al centro della prima volta di destra, entro un tondo, circondata da uno specchio d’acqua, sorge una fontana zampillante, contornata da otto fiammelle. Per comprendere l’iconografia di questa volta dobbiamo ricordare che al di sotto vi è il fonte battesimale; pertanto l’acqua della fontana rappresenta l’acqua del battesimo, con la quale siamo “lavati” dal peccato originale, le fiammelle invece sono il tradizionale simbolo dello Spirito Santo, ricevuto dagli apostoli il giorno di Pentecoste sotto forma di lingue di fuoco e che noi riceviamo, attraverso l’unzione crismale presente nel battesimo.
Sotto a tale volta è collocato il battistero, opera in scagliola realizzata assieme alla chiesa nel 1879, esso, nelle sue tonalità azzurre, riprende le originali cromie ottocentesche dell’interno dell’edifico. Come da tradizione il battistero si trova all’ingresso della chiesa poiché rappresenta la prima tappa della vita di un cristiano. Sopra di esso è posta la scritta latina: “Nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu sancto, non intrabit in regnum coelorum” (se qualcuno non rinascerà attraverso l’acqua e lo Spirito Santo non entrerà nel regno dei cieli). Non a caso nella parte superiore del fonte è posta la colomba (simbolo dello Spirito Santo) da cui sgorgano sette raggi (i sette sacramenti). All’interno del fonte è posta la vasca con l’acqua battesimale che viene benedetta durante la veglia pasquale e utilizzata per la celebrazione del battesimo.
Nella seconda volta, entro una cornice geometrica è rappresentata una croce rossa sormontata da una corona. Accanto alla croce vi è l’iscrizione latina: «O Crux ave spes unica» cioè «Ave o croce unica speranza». Questo testo è tratto da un antico inno della liturgia, il Vexilla Regis, che si recita il Venerdì Santo quando si ricorda la passione e morte del Signore sulla croce. Questa volta è quindi dedicata alla passione di Cristo, che ci ha acquistato la salvezza; per questo la croce è “l’unica speranza”. La croce rossa è anche il simbolo dell’ordine dei Camilliani, fondato da san Camillo de Lellis. A Rio Saliceto, soprattutto ai tempi del prevosto Marino Roccatagliati (1928-1969) numerosi giovani entrarono a far parte di questo ordine che si occupa soprattutto dell’assistenza degli ammalati negli ospedali.
La terza volta, è dominata dall’immagine, posta in un tondo, di Santa Rita da Cascia rappresentata col capo ricoperto dal velo. Essa è circondata dall’iscrizione non latina, ma volgare: «Beata con fermezza et con virtute». Si tratta dell’iscrizione funebre che era stata posta sulla bara della ancora oggi veneratissima santa. L’immagine di S. Rita è inoltre circondata da due roveti di rose, che tradizionalmente sono legate all’iconografia di tale santa e al suo culto.
Nella quarta volta, in un tondo, è dipinta una corona con inserite due lettere: la A e la M che stanno per Ave Maria, da queste lettere pende un rosario. Ai due lati del tondo vi sono tre riquadri a sinistra e tre a destra con inseriti ciascuno tre gigli bianchi. Intono a questi, ai lati, è un cielo stellato. Al di sotto di questa volta vi è l’altare della Madonna del Rosario, quindi tutti i simboli che sono dipinti al di sopra di esso sono un rimando alla Vergine Maria. L’Ave Maria è naturalmente la preghiera mariana più celebre, la corona è un rimando al fatto che Maria è regina del cielo e della terra, il Rosario è la principale forma di devozione mariana, i gigli simboleggiano la verginità della Madonna, mentre il cielo stellato è un rimando alle 12 stelle che circondano il capo della Vergine.
La Sagrestia
L’attuale sacrestia è frutto dei restauri operati dal prevosto don Castellini nel 2010. In quell’occasione il locale venne riportato il più possibile vicino a come era in origine: vennero rifatti gli impianti, eliminata l’umidità dai muri, ritinteggiato l’interno e restaurato il mobilio. Il pavimento in cotto è ancora quello originale della chiesa. Al suo interno troviamo due grandi mobili seicenteschi (restaurati appunto nel 2010) contenenti i lini e i paramenti sacri. Nell’occasione dei restauri vennero aggiunti tre antichi armadi provenienti dalla vecchia sacrestia della confraternita del Santissimo Sacramento (ora centrale termica) e necessari per conservare i paramenti moderni. Uno di questi armadi è ancora oggi utilizzato dalla Confraternita. All’interno della sacrestia troviamo anche alcuni importanti quadri: l’estasi di San Filippo, la Madonna del Carmelo, lo stendardo processionale di San Giorgio (recante sul retro l’antica immagine della chiesa) e uno stendardo dipinto della B.V. del Rosario. Nella sacrestia si conserva inoltre il catalogo delle reliquie e dei parroci di Rio, ed è presente la lapide commemorativa di don Antonio Tondelli.
Gli altari
Altare maggiore
L’attuale altare maggiore é opera della prestigiosa artista correggese Carmela Adani (1899-1965) ed è stato consacrato dal vescovo di Reggio Beniamino Socche nel 1959. Esso (visibile nella foto a fianco relativa a una Messa degli anni ’50) è realizzato, come la maggior parte degli altari della Adani, in marmo bianco di Carrara e rosso di Verona. La struttura si eleva su tre gradini marmorei, simbolo del monte Calvario. Al centro si erge il grande tabernacolo nel quale è riposto il SS. Sacramento. Al di sopra dello sportello sono incise le seguenti frasi: «Sanctus Sanctus Sanctus Dominus (Santo Santo Santo il Signore) e «Mysterium Fidei» (Mistero della Fede). Si tratta di alcune delle parole pronunciate dal sacerdote durante la preghiera eucaristica, ovvero la parte centrale della S. Messa. Vi è anche la raffigurazione di un agnello simbolo di Cristo, agnello immolato, nell’ostia consacrata. Ai lati del tabernacolo sono due libri aperti recanti le scritte: «Hic est panis qui de coelo descendit» e «Qui manducat hunc panem vivet in aeternum». Significano: «Questo è il pane disceso dal cielo» (Gv 6, 59) e «Chi mangia questo pane vivrà in eterno» (Gv 6, 59). Il costante richiamo della parola pane è un evidente allusione all’Eucaristia. La mensa marmorea, sostenuta da quattro colonne in marmo rosso, che originariamente era un tutt’uno con questa struttura, nel 1999 è stata separata e posta al centro del presbiterio per permettere anche la celebrazione versus populum (che a partire dal 1967 avveniva su un altare mobile in legno); di norma tale mensa è ricoperta dal paliotto del colore liturgico. Sull’altare sono posti sei candelieri e la croce in legno argentato opera del prevosto Beneventi del 1879 (l’anno e la firma sono visibili sul retro della croce stessa). Dello stesso autore sono pure le due mensole lignee poste ai lati dell’altare (1888). Sull’altar maggiore viene posta in alcuni tempi liturgici la croce lignea, opera di artigiani di Ortisei, acquistata dal prevosto don Romano Vescovi nel 1989.
L’altare del 1959 sostituì l’originale altare della chiesa (visibile nella foto a fianco) che era assai diverso e meglio si armonizzava con gli interni. Si trattava di un altare realizzato non in marmo bensì interamente in legno. Purtroppo tutta questa struttura è andata irrimediabilmente perduta nel 1959 e di essa non rimane più alcuna traccia. Sulla volta, al di sopra del vecchio altare era appeso il capocielo, ovvero un baldacchino ligneo, opera del prevosto Beneventi, sovrastante il luogo ove è conservato il SS. Sacramento in segno onorifico. Il pomeriggio del 15 agosto 1944 questo baldacchino, a causa di un cedimento dei sostegni, cadde al suolo andando completamente distrutto. Fortunatamente in quel momento non vi era alcuna funzione religiosa e nessuno rimase ferito.
L’attuale ambone, opera lignea di artigiani locali che riprende le decorazioni del pulpito, è stato voluto nel 2001 dal prevosto don Romano Vescovi, in sostituzione del precedente vecchio ambone autoamplificato, in uso dagli anni ’70. Nelle maggiori solennità come ambone viene usato il magnifico pulpito del 1889.
Altare della Madonna del Rosario
L’altare della Madonna del Rosario è collocato su lato destro della chiesa, quasi a formare un transetto con quello del Sacratissimo del Sacro Cuore. Questo altare, interamente in scagliola policroma, è stato realizzato pochi anni dopo l’edificazione della stessa Chiesa, infatti recentemente è stato ritrovato al di sotto del paliotto dell’altare un bigliettino del prevosto don Beneventi che lo data appunto al 1889. Due colonne di ordine corinzio, sormontate da un castello rettangolare, formano la grande ancona di gusto neoclassico. All’interno di questo, entro una cornice dorata, è collocata la statua lignea della Madonna del Rosario, alta circa 1,70 m. È opera dello scultore Giacomo Vincenzo Mussner di Ortisei ed è stata donata dalla sig.na Teresina Brunetti nel 1945 (restaurata nel 2001). Questa bella immagine sostituì l’originale Madonna del Rosario in cartapesta, ricoperta di vesti in ricca stoffa e recante sul capo una corona d’argento con dodici stelle che ancora si conserva, mentre la statua è andata perduta. Essa viene citata già in un inventario della chiesa del 1754 e venne probabilmente acquistata dal priore Carl’Antonio Brunetti.
Ai lati della statua sono appesi alcuni ex voto, offerti nel corso degli anni da numerosi fedeli per grazie ricevute. Fra di essi si segnala quello posto centralmente sopra alla Vergine, in quanto fu collocato da don Marino Roccatagliati al termine della II guerra mondiale poiché il sacerdote scampò a un agguato dei partigiani. Di rilevanza è anche lo sportello del tabernacolo in legno dorato.
Di norma in questo altare viene allestito il giovedì santo l’altare della riposizione per il triduo pasquale.
Sul lato sinistro di quest’altare è collocata, in una nicchia, la statua di san Giuseppe. Come quella della Madonna anche questa statua è opera del 1945 dello sculture G.V. Mussner, dono di Teresina Brunetti.
Altare del Sacratissimo Cuore di Gesù
Sul lato opposto è collocato l’altare dedicato al Sacratissimo Cuore di Gesù, realizzato in marmo e scagliola, in stile neoclassico. Come quello mariano, anche questo altare presenta una ancona formata da due grandi colonne di ordine ionico. Al centro di questa struttura è una grande cornice lignea, in stile neogotico, contenente la statua del Sacratissimo Cuore di Gesù. Questa è opera dello scultore Mussner di Ortisei e, come si legge sul basamento, è stata donata nel 1945 da Teresina Brunetti in memoria del fratello Alfredo (restaurata nel 2005). La cornice, pregevole in sé, ma stridente con lo stile dell’altare, è stata realizzata nel 1945 da artisti locali appositamente per questa statua. Nella parte inferiore, entro una piccola targhetta, è scolpito: «Cor Iesu Fili Patris Aeterni miserere nobis». Si tratta della prima litania in onore del Sacratissimo Cuore di Gesù e significa: «Cuore di Gesù, Figlio dell’Eterno Padre abbi pietà di noi». Il fatto che sia la statua che la cornice siano stati realizzati solo nel 1945, mentre l’altare è ottocentesco, ci pone il problema di quale statua e quale cornice vi fossero collocate precedentemente. Dopo accurate ricerche, possiamo affermare che in origine l’altare era dedicato a S. Antonio Abate, la cui statua, probabilmente opera settecentesca (le cui tinte sono state alterate), è ora posta in una nicchia a muro a lato dell’altare stesso. Anche la cornice che ora circonda S. Antonio era originariamente posta sull’altare del Sacro Cuore. Infatti sia le tinte di questa cornice, che ben armonizzano con quelle dei candelieri, sia le dimensioni, eccessive per la collocazione attuale, rafforzano questa ipotesi.
I quadri
La chiesa parrocchiale contiene numerosi quadri. Di essi però, soltanto tre compaiono nei censimenti della chiesa ed erano stati realizzati appositamente per essa.
Essi comparivano già nella chiesa del 1687 come pale d’altare rispettivamente dell’altar maggiore, di quello della Madonna del Rosario e di S. Nicola. Degli altri quadri, invece, non v’è traccia nei censimenti. Certamente non sono stati realizzati per la chiesa di Rio Saliceto, che non ebbe mai più di tre altari. A questo proposito dobbiamo ricordare che all’interno di una chiesa i quadri non erano semplicemente appesi a un muro, come li vediamo oggi in quella di Rio, ma avevano sempre ai loro piedi un altare che era dedicato al santo rappresentato nel quadro. Quindi, con tutta probabilità, buona parte di questi quadri proviene da chiese situati nelle vicinanze di Rio Saliceto. Nella nuova chiesa inizialmente, eccetto il quadro di S. Giorgio situato dietro all’altar maggiore, non compariva nessuno di questi quadri. Essi, che erano riposti nelle soffitte della chiesa stessa, vennero restaurati e collocati nelle pareti laterali solo negli anni ’70 del XX sec. dal parroco don Guido Martini.
MADONNA CON BAMBINO, S. GIORGIO E S.GIOVANNINO
J.Boulanger, (copia dal Correggio)
inizi sec. XVII; olio su tela; cm. 128 x 155.
Questo dipinto situato nella parete absidale, dietro l’Altar maggiore, rappresenta s.Giorgio che, sceso da cavallo e levatosi l’elmo, si inginocchia sostenuto dall’elsa della sua spada. Il Bambino, in braccio alla Vergine, investe il santo dell’ordine di cavaliere con una collana d’oro; sulla destra il piccolo s.Giovanni Battista, sostenuto da una figura femminile, indica la scena centrale.
Fonti settecentesche dell’archivio parrocchiale, sostengono che questo quadro sia la copia di un’opera del celebre pittore Antonio Allegri, detto il Correggio (1489–1534). L’originale – di cui si è persa ogni traccia – sarebbe stato asportato dall’antica chiesa di Rio nella prima metà del ‘600, per volere del duca di Modena Francesco I, il quale pur di ampliare la collezione della sua Galleria d’Arte, non esitava a depredare dei loro tesori le chiese del ducato. La tela venne poi sostituita da questa riproduzione realizzata (secondo un’ipotesi) da Jean Boulanger(1606-1660), pittore della corte ducale estense.
Da “Memorie istoriche di Antonio Allegri”, 1817, di p.Luigi Pungileoni:
[…]La scena è innanzi d’un monte, sul cui dorso a sinistra sonovi degli arbusti con larghe foglie tra le quali vedesi un lontano orizzonte alquanto rischiarato dal sole. Tutte le figure sono situate in modo che vengono ad allargare mirabilmente lo spazio, si accostano alla grandezza naturale ed eccitano nell’animo dei riguardanti una gioja mista allo spiacere nel non sapersi dove sia l’originale, ond’è a far voti, affinchè venga ad iscoprirsi in qualche galleria. In esso vedrebbesi assai meglio steso quel candor luminoso, che ad esse concilia ciò che appellasi serenità, espressa con miglior forma di colore la carnagione e la capigliatura unirsi con la bianchezza del volto. Questa è una delle opere dell’Allegri fatte in tempo in cui più in lui bolliva la fantasia dell’estro, in virtù del quale coglier seppe sì bene il fiore d’ogni beltà con isciegliere in natura il meglio per formare i suoi corpi gentili. […]
Di pregio è anche la ancona in scagliola policroma, realizzata per la chiesa del 1879 dagli stessi maestri carpigiani che con tutta probabilità avevano eseguito il fonte battesimale e l’armadio delle reliquie posti in fondo alla chiesa.
San Giorgio è inoltre raffigurato anche in uno stendardo processionale ottocentesco che si usa il 23 aprile (foto del fronte con san Giorgio che uccide il drago / foto del retro con la raffigurazione dell’ostensorio sopra alla antica chiesa settecentesca) conservato in sacrestia .
Lo stesso santo è inoltre raffigurato in un altro stendardo processionale, ancora più antico del precedente, e conservato in oratorio: nel fronte abbiamo l’immagine del santo che uccide il drago; nel retro l’assunzione in cielo di Maria.
MADONNA CON BAMBINO, S. GIORGMADONNA DEL ROSARIO CON SAN DOMENICO, SANT’ANTONIO ABATE, SANTA LUCIA SANT’ORSOLAIO E S.GIOVANNINO
fine sec. XVII; olio su tela; cm. 158 x 215.
Si tratta della tela realizzata nel 1670 da un pittore emiliano su commissione del parroco Flaminio Casoni, per l’Altare del Rosario della precedente chiesa di Rio (di cui si intravede la sagoma sullo sfondo del dipinto). Nell’inventario della chiesa del 1754 si afferma che presso l’altare della Madonna del Rosario vi è «un quadro con sua ancona con vernice verde e filetti d’uva con sua tenda turchina; ne quadro evvi l’effigie della B.V. del Rosario, di S. Domenico, di S. Lucia, di S. Antonio Abbate, di S. Orsola. Nella colonnette di detta ancona vi sono dipinti i quindici misteri del Rosario»
La parte superiore dell’opera è presa dalla “Pala della Peste” del grande pittore bolognese Guido Reni (1575-1642), dipinto ora conservato nella Pinacoteca Nazionale di Bologna.
In primo piano a sinistra, san Domenico è raffigurato nell’atto di inginocchiarsi mentre la Vergine col Bambino, in gloria tra gli angeli e assisa su un trono di nubi, gli dona corone del rosario. A terra gli emblemi del santo: il giglio simbolo di purezza e il libro della Sacre Scritture che richiama la meditazione, lo studio e la predicazione.
A destra si trova sant’Antonio abate che indica la Vergine. Il santo si regge ad un bastone, simbolo dell’eremitaggio ed è rivestito di un mantello che reca sulla spalla sinistra una “Tau”, l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico indice della costante meditazione sulle cose ultime. A lato del santo è rappresentato il libro delle Scritture, su di esso arde una fiamma, simbolo delle terribili tentazioni e dei tormenti demoniaci contro cui dovette combattere l’eremita egiziano. Nel Medioevo, la popolazione, colpita da ergotismo (grave malattia che provocava fortissimi bruciori agli arti), invocò il santo, perché potesse sconfiggere il “fuoco” che li divorava, come aveva fatto durante la sua vita vincendo il fuoco infernale che lo tentava; fu così che questo flagello prese il nome di “Fuoco di sant’Antonio”. Ebbe perciò origine l’Ordine Ospedaliero degli Antoniani che si dedicava alla cura di questo male utilizzando il grasso di suino che allevava nei suoi possedimenti. Per questo il maiale è divenuto il più celebre simbolo del santo, ( qui è appena visibile in basso a destra). Sul terreno si trova la campanella con cui gli Antoniani annunciavano il loro arrivo per la questua.
In secondo piano a destra è presente sant’Orsola che, rivestita degli abiti regali, reca in una mano la palma emblema del martirio e nell’altra un vessillo con il simbolo della sua casata.
A sinistra è raffigurata santa Lucia con la palma del martirio, un pugnale conficcato nella gola e una coppa che contiene i suoi occhi.
MADONNA DELLA GHIARA CON SAN NICOLA DI BARI, SAN SEBASTIANO, SANT’ANTONIO DA PADOVA, S. GIORGIO E S.GIOVANNINO
fine sec. XVII; olio su tela; cm. 148 x 192.
Questa tela fu realizzata nel 1689 da un pittore emiliano (lo stesso autore della Madonna del Rosario) su commissione del parroco Flaminio Casoni, per il nuovo Altare di S. Nicola (o S. Nicolò) della precedente chiesa di Rio. Questo quadro compare nel censimento del 1754 in cui si afferma che l’altare è legato al Benefizio di S. Nicola con l’onere della celebrazione di quattro Messe al mese.
Nella parte superiore, adorata da angeli, è presente la Madonna della Ghiara nella tradizionale rappresentazione che la vede seduta, con le mani giunte in devota preghiera verso il Bambino, che le sorride con le braccia aperte.
In primo piano a sinistra, si trova san Nicola, che vestito da vescovo, tiene in mano il libro dei Vangeli, su cui si possono notare tre sfere d’oro; queste richiamano l’episodio che rese celebre la generosità di Nicola.
Due angioletti in alto a destra porgono la palma del martirio a san Sebastiano, legato ad un albero e trafitto da frecce.
In secondo piano a sinistra sant’Antonio da Padova con il giglio simbolo di purezza, guarda con devozione il Bambino che ebbe il privilegio di tenere tra le braccia.
MADONNA DI LORETO E SANTI GIOACCHINO ED ANNA
sec. XVII; olio su tela; cm. 185 x 265.
Quest’opera seicentesca, eseguita da un pittore reggiano, raffigura la Vergine di Loreto nel tradizionale simulacro venerato al santuario della Santa Casa. L’immagine della Madonna è sostenuta da tre angeli mentre due putti la incoronano con la tiara, corona papale, essendo il santuario Lauretano insignito del titolo di Cappella Pontificia.
Nella parte inferiore della tela sono rappresentati i santi Gioacchino ed Anna, genitori della Vergine; di loro non si trovano notizie nei Vangeli canonici bensì in quelli apocrifi, che, sebbene non autentici, hanno profondamente influito sulla devozione e sull’arte religiosa.
In particolare, il testo apocrifo dello pseudo-Matteo racconta che S. Gioacchino si era allontanato da Gerusalemme, sui monti, per condurre vita da pastore poiché, essendo ormai anziano, riteneva una punizione divina il fatto di non avere figli. Finalmente dopo giorni di preghiere, sacrifici e digiuni un angelo gli apparve dicendogli di tornare in città perché presto sarebbe diventato padre (è questa la scena che si scorge sullo sfondo, accanto all’ultima colonna a sinistra).
Gioacchino obbedì all’annuncio e accorse subito a Gerusalemme, dove presso la Porta Aurea, era atteso dalla moglie Anna anch’essa avvertita dall’angelo.
Nel quadro, in primo piano, è rappresentato l’incontro tra i due sposi che si abbracciano con profonda tenerezza e commozione; la loro unione fu tramite di un meraviglioso avvenimento: l’Immacolata Concezione di Maria.
Il quadro addobbato a festa per la ricorrenza liturgica dei santi Gioacchino e Anna (26 luglio)
SAN ROCCO IN CARCERE
copia da Guido Reni
fine sec. XVII; olio su tela; 180 x 265.
Questa pregevole opera tardo seicentesca è la copia di un quadro del grande pittore bolognese Guido Reni (1575-1642).
Il dipinto originale fu realizzato per la chiesa della Confraternita di s. Rocco in Carpi, ma nel ‘700 il duca di Modena Francesco III lo fece rimuovere per collocarlo nella Galleria Estense.
Del santo si hanno poche notizie certe. Un testo medievale narra che Rocco, nato in una ricca e nobile famiglia a Montpellier, in Francia, rimase presto orfano; così decise di vendere tutti i suoi averi a beneficio dei poveri e di partire in pellegrinaggio alla volta di Roma. Durante il viaggio si fermò in numerose località, prodigandosi a curare gli appestati e guarendone miracolosamente un gran numero. Nel 1317 il pellegrino francese raggiunse finalmente Roma dove alternava la preghiera all’assistenza negli ospedali.
Dopo tre anni Rocco decise di ripartire per tornare a Montpellier, prestando servizio nei luoghi di cura che incontrava lungo il tragitto. Questa sua attività però lo espose al contagio della peste, così decise di ritirarsi in una capanna abbandonata.
Un giorno accade un fatto importante: un cane entrò nel luogo in cui si era rifugiato Rocco. L’animale, gli si affezionò talmente da portargli ogni giorno un poco di cibo sottratto alla tavola del padrone, il quale incuriosito da quei furti e dall’andirivieni del cane, lo seguì scoprendo il malato. L’uomo invece di allontanarsi volle curare il santo facilitandone così la miracolosa guarigione. Successivamente Rocco riprese il cammino, ma giunto al suo paese natale, venne scambiato per una spia, perciò fu arrestato e rinchiuso in carcere, dove morì cinque anni dopo.
Nel quadro è rappresentato s. Rocco nella cella, confortato da un angelo che, poco prima della morte, gli apparve annunciandogli la sua prossima comunione divina. Nonostante l’episodio del cane avvenne prima della carcerazione, l’animale è ugualmente raffigurato in modo da rendere s. Rocco riconoscibile.
SAN CARLO BORROMEO, SAN MICHELE ARCANGELO, SAN BIAGIO
sec. XVII; olio su tela; 145 x 205.
A sinistra san Carlo Borromeo in abito cardinalizio, stringe al petto un Crocifisso segno della sua devozione; il santo è facilmente riconoscibile per il suo naso particolarmente pronunciato.
Naque nel 1538 ad Arona (Novara) e quale secondogenito, fu avviato fin da bambino alla vita ecclesiastica, come stabiliva l’uso delle famiglie nobiliari. Fu creato cardinale a soli 22 anni, da papa Pio IV, suo zio. Alla morte del fratello, qualche anno dopo, rifiutò la possibilità di mettersi a capo della famiglia Borromeo, per restare nello stato ecclesiastico. Fu consacrato vescovo a 25 anni. Arcivescovo di Milano, dispiegò, in una vita relativamente breve, un’intensissima attività pastorale, consumando le sue energie nell’impegno ascetico, nella carità e nella riforma della Chiesa. Fu tra i grandi promotori del rinnovamento nella fede e nei costumi sancito dal Concilio di Trento. La sua carità pastorale si manifestò specialmente nella famosa peste di Milano. Morì nel 1584 a 46 anni e fu canonizzato nel 1610. Certamente fu uno dei più grandi ed amati vescovi della storia della Chiesa.
Al centro san Michele arcangelo con l’armatura militare calpesta e trafigge con una lancia il demonio avvinghiato alla sua gamba; in mano porta la bilancia con cui, secondo la tradizione, pesa le anime dopo la morte.
Michele (che in ebraico significa “chi come Dio?”) è capo supremo dell’esercito celeste, cioè degli angeli in guerra contro il male; satana sconfitto dagli angeli nella lotta, fu scacciato dai cieli e precipitò sulla terra.
Il santo anticamente protettore del popolo eletto, oggi è patrono della Chiesa, che lo invoca in aiuto nella lotta contro le forze del male. A destra san Biagio, rivestito delle insegne episcopali, regge nella mano destra il pettine metallico con cui venne torturato. Biagio vissuto nel IV secolo, fu vescovo della comunità di Sebaste in Cappadocia (l’antica Armenia). In seguito alle persecuzioni avvenute sotto l’imperatore Licinio, fu martirizzato nel 316 con la decapitazione, dopo essere stato scorticato con un pettine per cardare la lana. Il 3 febbraio, giorno di s. Biagio, è tuttora praticato il rito della “benedizione della gola”, fatta poggiandovi due candele incrociate (oppure con l’unzione mediante olio benedetto), invocando la sua intercessione. L’atto si ricollega alla tradizione secondo cui il vescovo Biagio avrebbe prodigiosamente liberato un bambino da una lisca conficcata nella gola.
INCORONAZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA
sec. XVII; olio su tela; 150 x 205.
La Madonna, in alto, si trova inginocchiata e con le mani incrociate sul petto in atto di umiltà ed è rivestita di un manto blu, che, essendo il colore del cielo, è simbolo di trascendenza e spiritualità e di una veste rossa che rappresenta la regalità ma anche l’amore verso Dio. Le tre Persone della Santissima Trinità accolgono l’ingresso della Vergine Santissima in Cielo.
A destra Dio Padre, nelle sembianze di un anziano canuto regalmente vestito, regge con la mano sinistra lo scettro e il globo, simboli della sua onnipotenza, mentre con la destra sostiene la corona che sta ponendo sul capo della Vergine assieme al Figlio, raffigurato nelle vesti del Risorto con la veste bianca e il vessillo crociato simbolo della vittoria sulla morte. Lo Spirito Santo, sotto forma di candida colomba, aleggia su Maria.
A questa mistica celebrazione assiste tutta la Chiesa Trionfante assisa sulle nubi: nella parte superiore ai lati della scena principale si trovano le schiere degli angeli; più in basso a destra le Sante Vergini e Martiri; da sinistra, in ordine sparso, i Santi Martiri, i Profeti, i Confessori della Fede, i Dottori della Chiesa, gli Evangelisti e, in primo piano, gli Apostoli.
Questo quadro è una copia della tela dell’Incoronazione del pittore sassolese Giacomo Cavedoni (1623). Quest’ultima è attualmente custodita in una collezione privata a Modena, ma era stata dipinta per la chiesa di S. Rocco a Carpi. In essa risultano evidenti le influenze del Carracci e del Correggio.
Probabilmente quindi un anonimo autore locale nella seconda metà del Seicento ha realizzato Qsto quadro , questa copia per un’altra chiesa della nostra zona.
VISIONE DI SAN FILIPPO NERI
sec. XVII; olio su tela; 140 x 205..
Questa opera seicentesca collocata nell’attuale sagrestia, raffigura san Filippo Neri in atteggiamento estatico di fronte alla Vergine col Bambino.
S. Filippo (1515-1595) è qui ritratto con le mani accostate al petto perché fu protagonista di un fatto straordinario. Quando non era ancora sacerdote, nella Pentecoste del 1544, durante una notte di intensa preghiera, ricevette in forma sensibile il dono dello Spirito Santo che gli dilatò fisicamente il cuore, infiammandolo di un fuoco che arse nel petto del santo fino al termine dei suoi giorni (fu allora che i medici constatarono la rottura di due costole).
La sua esperienza mistica ebbe le più alte espressioni durante la celebrazione della S. Messa, per questo motivo s. Filippo, in questo quadro, si trova rivestito dei paramenti sacerdotali ai piedi di un altare mentre contempla in estasi la Vergine con il Bambino, avvolta da una nube e circondata da angeli.
In basso a destra due angioletti reggono i simboli propri del santo: un giglio bianco simbolo di purezza e il tricorno, copricapo da sacerdote; ai loro piedi sono presenti due berrette cardinalizie, allusione al fatto che s. Filippo, chiamato più volte a diventare cardinale, per umiltà rifiutò sempre. Sul lato del gradino su cui è inginocchiato il santo è possibile scorgere la data 1692, anno della realizzazione del dipinto.
MADONNA DEL CARMELO
sec. XVII; olio su tela;
Questa piccola tela, collocata nell’attuale sagrestia, rappresenta la Madonna del Carmelo nella sua tradizionale iconografia ovvero recante Gesù Bambino in braccio che porge lo ‘scapolare’ (tutto porta a Gesù), e con la stella sul manto (consueta nelle icone orientali per affermare la sua verginità).
Il Carmelo è un monte della Palestina che fu dimora di Elia, primo profeta d’Israele (IX sec. a.C.) che qui ebbe la visione della venuta di una vergine, che si alzava come una piccola nube dalla terra verso il monte, portando la pioggia e salvando Israele dalla siccità. In quella immagine tutti i mistici cristiani e gli esegeti hanno sempre visto la Vergine Maria, che portando in sé il Verbo divino, ha dato la vita e la fecondità al mondo. Un gruppo di eremiti, Fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo, costruirono una cappella dedicata alla Vergine sul Monte Carmelo. I monaci carmelitani fondarono, inoltre, dei monasteri in Occidente. Il 16 luglio del 1251 la Vergine, circondata da angeli e con il Bambino in braccio, apparve al primo Padre generale dell’Ordine, beato Simone Stock, al quale diede lo «scapolare» col «privilegio sabatino», ossia la promessa della salvezza dall’inferno, per coloro che lo indossano e la liberazione dalle pene del Purgatorio il sabato seguente alla loro morte.
Lo scapolare è una copia in miniatura dell’abito che i monaci carmelitani indossavano come segno della loro vocazione e devozione. Esso consiste in due piccoli lembi di lana (simbolo di Gesù, l’Agnello di Dio) uniti da due stringhe e portati sulle spalle. Di pregio è anche la cornice dorata nella cui parte inferiore si possono notare due piccoli sostegni che servivano per collocarla sull’altare di S. Nicola al di sotto della pala. Infatti, come risulta dal censimento del 1754, questa tela, con la sua cornice è posta sull’altare di S. Nicola. Si afferma anche che questa era comunemente detta “la Madonnina” ed era stata realizzata a spese del popolo.
Chiesa parrocchiale di S.Antonio di Padova in ca’ de’ Frati
Cenni Storici sulla frazione
Come risulta da un documento ritrovato nell’archivio parrocchiale di Rio Saliceto, il nome “Ca’ de’ Frati” ha avuto origine da dieci possedimenti in questa località di proprietà di frati, forse benedettini, che risiedevano in un convento di Campagnola Emilia, e precisamente nella località Badia. Essi in epoca medievale eseguirono una vasta opera di bonifica, permettendo una estesa e produttiva coltivazione dei terreni, che in quella zona, chiamata “campagna del Bondione” erano alquanto paludosi a causa dell’opera lenta e decisa dei fiumi appenninici Rio e Crostolo Vecchio.
Oggi purtroppo non si possono rinvenire tracce della presenza di questi monaci, neppure dell’antica Chiesa che qui sorgeva, all’incrocio fra via dei Grilli e via Ca’ de’ frati.
Resta ancora oggi nella memoria dei riesi la presenza di una grande tenuta agricola che dava lavoro a trecento famiglie, composte per la maggior parte da braccianti, essa era l’aggregato “urbano-rurale” più popoloso del Comune, almeno fino agli anni Sessanta.
Il vecchio oratorio di S. Antonio
Il primo oratorio, costruito a Ca’ de’ Frati dedicato a S. Antonio da Padova di cui abbiamo notizia fu ultimato nel 1810, Don Zaccarelli ci dà notizia della sua inaugurazione: “fu benedetto il 30 settembre 1810 e il 17 settembre 1811 fu fatta una grandissima funzione con aver addobbato detto oratorio, consistente nella celebrazione di molte messe”. Qui negli anni successivi, fino ai primi del ‘900, un sacerdote, alle dipendenze del parroco di Rio Saliceto e mantenuto dalla popolazione locale, veniva a celebrare la Messa per gli abitanti della frazione. Non dimentichiamo infatti che, soprattutto nella prima metà del ‘900 Ca’ de’ Frati era enormemente più popolata rispetto ad oggi a causa della grande richiesta di manodopera agricola in questa zona e l’assenza di industrializzazione nel territorio riese. Un numero enorme di famiglie viveva in questa località che aveva una popolazione simile se non superiore a quella di Rio. Ciò spiega l’interesse che i parroci di Rio hanno sempre mostrato per questa frazione, che poi, a partire dagli anni ’60 del ‘900 si è progressivamente spopolata.
Tuttavia nel 1860 il neonato stato italiano, nella sua feroce campagna antireligiosa e nello scontro con la Chiesa, promosse una serie di leggi (Asse Ecclesiastico) che miravano a incamerare tutti i beni di proprietà di famiglie religiose. Questa sorte toccò anche al possedimento su cui sorgeva il citato oratorio di S. Antonio nel 1810, che fu requisito e rivenduto dallo Stato. Tuttavia i parroci di Rio continuarono a celebrare in questo oratorio, anche don Marino Roccatagliati, che nel 1917 era stato curato di don Tondelli a Rio Saliceto per un breve periodo, andò a celebrare in questo oratorio e certamente conobbe la popolazione del posto.
Al termine della prima guerra mondiale (1918) tutti i terreni di Ca’ de’ Frati, un tempo proprietà dei monaci e comprendenti il citato oratorio, vennero presi in affitto dalla Federazione Socialista di Reggio Emilia. Siamo – non dimentichiamocelo – negli anni del “biennio rosso”, ovvero un periodo di fortissime tensioni sociali seguite alla grande guerra. I socialisti, all’epoca in fortissima polemica con la Chiesa e con il neonato Partito Popolare di don Sturzo, appena impadronitisi di quei terreni, non nascosero il progetto di distruggere anche l’oratorio dedicato a S. Antonio. Così il parroco don Tondelli ebbe appena il tempo di portare via dall’oratorio la pietra sacra e gli arredi per la Messa, prima che l’oratorio venisse occupato dai socialisti. A Ca’ de’ Frati, in quel periodo, i socialisti dovevano infatti essere particolarmente attivi e particolarmente in avversione con la religione cristiana, tant’è che un cronista dell’epoca, riguardo a questi fatti, annota: “i vandali distrussero tutto quello che vi era dentro, profanarono la statua di S. Antonio mutilandola, fracassando l’immagine del bambino Gesù. Passata la burrasca rossa, per quanto il sacerdote fosse ben accetto nelle famiglie, pure tanti disordini ha trovato don Marino in quella Frazione: bimbi da battezzare e da ammettere agli altri sacramenti; matrimoni irregolari”.
Questo vecchio oratorio, come si può vedere dalla mappa, si trovava nel podere che nel ‘900 era denominato Marconcella (ora cassa di espansione del Tresinaro), prima era denominato Bonini. Dopo l’atto di vandalismo citato, esso venne abbandonato e in seguito demolito a metà del XX secolo. Tuttavia ancora negli anni ‘70, quando i ragazzi si trovavano alla Marconcella, si usava dire: “ci troviamo a S. Antonio”.
La nuova chiesa voluta da Don Marino
Questi fatti ci possono dunque far capire perché don Marino tenesse tanto alla frazione di Ca’ de’ Frati e perché, fin dal suo arrivo a Rio nel 1928, il sacerdote si prodigò per la conversione dei tanti cadefratesi allora lontani dalla Chiesa. I registri parrocchiali dell’epoca testimoniano infatti che si registrò all’epoca un considerevole ritorno a Dio: aumento dei battesimi e dei matrimoni. Per portare avanti quest’opera era però fondamentale l’erezione di una chiesa a Ca’ de’ Frati, anche perché il vecchio oratorio di S. Antonio, vandalizzato nel 1918, non di proprietà della chiesa, non era utilizzabile.
Indubbiamente anche la situazione politica nazionale (concordato con la Chiesa cattolica) favorì l’opera di don Marino che, nonostante le scarse risorse economiche (siamo all’indomani della terribile crisi del ’29), iniziò a promuovere la costruzione della nuova chiesa di Ca’ de’ Frati. Il suo auspicio era che ciò favorisse ulteriormente la diffusione della religione cattolica nella piccola ma densamente abitata frazione, ancora permeata dall’ideologia socialista e, considerando i mezzi dell’epoca, distante dal centro di Rio.
Perciò, pur tra le difficoltà economiche dell’epoca (siamo all’indomani della crisi del ’29), don Marino, grazie alla donazione di un terreno agricolo a Ca’ de’ Frati, iniziò lì l’opera di costruzione di una nuova chiesa. Il 22 novembre 1933 il delegato del vescovo benedisse la prima pietra dell’edificio.
Da quel giorno la popolazione, in gran parte contadina, vista l’esiguità delle risorse, si impegnò personalmente per la costruzione della nuova chiesa, svolgendo un po’ tutti i lavori: dallo scavo delle fondamenta al trasporto delle pietre con buoi e altri mezzi. Nel 1934 i lavori vennero sospesi perché il raccolto era stato scarso, e a stento le famiglie avevano di che mantenersi. Ripresero poi il 1 maggio 1935, sotto la guida dell’ingegnere Siliprandi di Reggio Emilia.
Finalmente, il 23 settembre 1935, il vescovo di Reggio, Eduardo Brettoni (che il giorno prima aveva amministrato le cresime a Rio Saliceto nella festa di S. Luigi Gonzaga), benedisse il nuovo tempio. Lo stesso don Marino confessa la propria emozione in quella storica giornata: “Io piansi in segreto dalla consolazione pensando al grande bene che si potrà fare a quella popolazione abbandonata, con l’aiuto e l’assistenza del Signore”. E ancora: “Sia benedetto il Signore che ha concesso la grazia di sciogliere uno dei tanti problemi che si affacciarono alla mia mente alla mia venuta in questa parrocchia. Mons. Vescovo ha concesso di celebrare tutte le domeniche una Messa festiva nella nuova chiesa alle 9.30”.
Dopo la benedizione del vescovo, mons. Alistico Riccò, prevosto della Basilica di S. Prospero di Reggio e di origini riesi, fu il primo a celebrare la Messa nella nuova chiesa. Poi, sempre il 23 settembre, vi celebrarono don Mario Grazioli, parroco di S. Maurizio, e don Prospero Branchetti, nativo di Rio. Da ultimo, don Marino celebrò la Messa principale della giornata, animata dal coro dei fanciulli che intonava la Missa de Angelis.
Nel pomeriggio, dopo il canto del Vespro alle 16, don Marino, come ricorda anche nella sua autobiografia, fece un lungo discorso, poi ebbe luogo una lunghissima processione, accompagnata dalla banda di Budrio, con la nuova statua di S. Antonio, portata a spalla da sedici giovani della parrocchia. Si arrivò fino al casino della Bellaria. Al termine si ritornò nella nuova chiesa, dove, dopo aver cantato il Te Deum, ebbe luogo la Benedizione Eucaristica. Infissa su di una lastra di marmo, sopra alla porta, all’interno della chiesa, venne posta una lapide a ricordo dell’evento, che tradotta, recita così: “Il prevosto Marino Roccatagliati, con sollecitudine e quasi di proprie spese fece erigere questo tempio in onore di S. Antonio da Padova secondo il progetto e l’arte dell’edile Otello Siliprandi ed il vescovo di Reggio Emilia Eduardo Brettoni rese sacro con la benedizione il giorno 23 settembre dell’anno 1935 dalla redenzione del mondo”.
Le linee architettoniche della nuova chiesa, vista anche l’esiguità delle risorse con cui è stata costruita, sono alquanto semplici. La facciata è a capanna ed è caratterizzata da un rivestimento in pietra con portale sormontato da lunetta a tutto sesto e arco decorato su pilastrini. Nella parte superiore è presente un rosone con vetrata. Le linee architettoniche dell’interno richiamano lo stile neoromanico. La muratura in mattoni lasciati a vista è animata da lesene leggermente sporgenti che arrivano fino all’imposta delle capriate in legno della copertura. Nella parte alta delle pareti sono state realizzate finestre a monofora. Il pavimento è realizzato in mattonelle di graniglia.
La nuova Parrocchia
Dopo l’edificazione della nuova chiesa don Marino si impegnò anche affinché Ca’ de’ Frati diventasse una parrocchia vera e propria, con un suo parroco ivi residente, che potesse quindi meglio occuparsi della pastorale nella frazione.
Tale risultato venne raggiunto il 14 aprile 1948, quando un decreto del vescovo Socche, creò la nuova parrocchia di Ca’ de’ Frati: “Per poter più facilmente provvedere alle necessità dei fedeli riteniamo opportuno scindere le parrocchie vaste e molto popolate, ricavandone più parrocchie, designando ad ognuna il proprio parroco. Perciò con gioia siamo venuti alla determinazione di staccare dalla estesa parrocchia di S. Giorgio M. in Rio Saliceto una parte del territorio denominata Ca’ de’ Frati, dai frati dell’inclito ordine di S. Benedetto, per formarne una nuova parrocchia col proprio parroco. Infatti quella frazione dista da Rio Saliceto circa cinque chilometri ed è quindi molto difficile di là portarsi alla chiesa di Rio. […] Sebbene il curato di Rio si portasse a Ca’ de’ Frati tutte le domeniche per la S. Messa e parecchi giorni dell’anno per la dottrina ai fanciulli pur tuttavia ciò non è ancora sufficiente. Per la gloria di Dio e per il bene delle anime a noi affidate e per soddisfare ad un ammirabile desiderio di don Marino Roccatagliati, parroco di Rio Saliceto e della stessa popolazione di Ca’ de’ Frati, dopo aver avuto il consenso del Capitolo della nostra Chiesa Cattedrale, a norma del canone 1427 del Codice di Diritto Canonico, usando della nostra Ordinaria Autorità, con il presente Decreto dividiamo e smembriamo la detta porzione di territorio della parrocchia di Rio Saliceto e la ereggiamo in nuova Parrocchia; e la stessa Chiesa la dichiariamo Parrocchiale sotto il titolo di S. Antonio da Padova”.
Il decreto designa poi il beneficio assegnato alla nuova parrocchia e conclude dichiarando che la nuova parrocchia di Ca’ de’ Frati sarà soggetta al Vicariato Foraneo di Correggio e che il suo parroco pro tempore porterà il titolo di Priore. Il decreto è firmato da sua Ecc.za mons. Beniamino Socche e dal Can.co M. Ferrari, cancelliere vescovile.
Pochi anni dopo, di lato alla chiesa, venne costruita la casa canonica (residenza del parroco), che in seguito venne allargata, rendendola del tutto affiancata alla chiesa anche al fine di ospitare nel retro un piccolo asilo per i bambini di Ca’ de’ Frati. Questo edificio dopo il trasferimento di don Alcide nel 1972 è stato abitato da altri affittuari; nel 2012, assieme alla chiesa, è stata danneggiata dal sisma. Attualmente (2022-23) è in corso il suo restauro.
In realtà Ca’ de’ Frati, sia per il calo del clero a partire dalla fine degli anni ’60, sia per lo spopolamento del suo stesso territorio, sia per le mutate necessità degli abitanti che non hanno più difficoltà a spostarsi, ha avuto un solo parroco residente nella sua storia. Si tratta di don Alcide Pignagnoli, che ha retto la parrocchia fino al 1972. A partire da quell’anno Ca’ de’ Frati non ha più avuto un parroco residente, infatti prima è stata retta dal parroco di Mandrio, poi, a partire dal 1989, da quello di Rio Saliceto, parrocchia con cui attualmente forma un’unità pastorale. In quel periodo la chiesa di Ca’ de’ Frati si dotò di alcune statue: il patrono S. Antonio (opera lignea dello sculture Mussner di Ortisei), la beata Vergine di Lourdes (statua in gesso restaurata dal prevosto don Romano Vescovi nel 2007), S. Antonio Abate e S. Maria Goretti.
Negli anni ’70, sotto la cura di don Lino Panciroli, venne realizzato l’adeguamento liturgico che purtroppo demolì il vecchio altare maggiore (di cui oggi rimane solo la mensa). Nel 1978 don Guiscardo realizzò la pavimentazione del sagrato. Durante il periodo di don Romano Vescovi venne realizzato il nuovo impianto di riscaldamento e di illuminazione della chiesa, e rifatti gli infissi. In questi anni, pur nella inevitabile riduzione delle celebrazioni liturgiche, i parroci hanno mantenuto viva l’esperienza di fede in questa piccola frazione, ad esempio con la recita del rosario nel mese di maggio o la processione del 13 giugno in onore di S. Antonio.
Attualmente la chiesa è inagibile a seguito del sisma del maggio 2012, che ha danneggiato in particolare il tetto e l’abside dell’edificio, le cui fondamenta si sono purtroppo rivelate alquanto fragili. Si auspica che i lavori di restauro inizino nel 2023. Tuttavia non possiamo certo dimenticare lo sforzo di don Marino e di diversi abitanti di Ca’ de’ Frati, che, a fatica e con poveri mezzi, spesero tempo e denaro per edificare una dignitosa chiesa a gloria di Dio e per avvicinare alla religione la popolazione della piccola ma vivace frazione.
Elenco dei parroci di Ca’ de’ Frati
(fino al 1948 la parrocchia non esiste ed è parte della parrocchia di Rio)
1951-1972 don Alcide Pignagnoli, primo (e unico) parroco residente a Ca’ de’ Frati
1972-1977 don Lino Panciroli, parroco di Mandrio
1978-1979 don Guiscardo Mercati (amministratore parrocchiale), curato di Rio
1979-1989 don Francesco Costi, parroco di Mandrio
1989-2009 don Romano Vescovi, prevosto di Rio
2009-2018 don Carlo Castellini, prevosto di Rio
2018 – don Stefano Manfredini, prevosto di Rio
Don Alcide Pignagnoli, primo parroco di Ca’ de’ Frati